Memoir di Viaggio: parte prima

Questo articolo che segue è la cronaca del mio viaggio in solitaria verso Darjeeling. Essendo stato scritto in marzo per un viaggio avvenuto a Novembre, la forma più adeguata è ovviamente quella del memoir. Per altri accenni di vita indiana, il Gempo Bifronte, il mio moribondo blog può darvi qualche altra pennellata che spero gradita. Vogliate scusarmi se talvolta indugerò in particolari che potrete ritenere inutili, ma tale è la mia umana natura che mi porta a credere che qualsiasi cosa io reputi degna di menzione lo sia davvero.
Golden Tips


Il viaggio iniziò con lo status di “questo viaggio non s’ha da fare”. Organizzato per essere portato avanti nei dieci giorni della festa indiana del Deepanavali (o Diwali per gli amici) come il mio grandioso viaggio in solitaria verso l’Himalaya, mi ritrovai il giorno della partenza in preda agli spasmi intestinali più forti, febbri latenti e quanto altro. Che l’India schianti prima o poi le proprie difese immunitarie è una cosa che si accetta velocemente, che le schianti proprio quando devi essere al tuo massimo… Ma il biglietto era prenotato, l’occasione era unica e in fondo avrei trovato tutto il tempo di guarire a bordo del Bramaputra Express. Sette euro era il prezzo pagato per la prenotazione di una brandina in Sleeper Class, la famigerata Ultima Classe con cui viaggia la schiacciante maggioranza degli indiani (scorrete fino a Sleeper Class (http://www.seat61.com/India.htm#classes) se ne volete una veloce e fotografica descrizione), per il viaggio dei viaggi della mia permanenza nella terra del Karma, e non avevo la minima intenzione di farmela sfuggire. E così la sera della mia dipartita mi misi insieme alla buona, feci una ritardataria e affrettata valigia, ignorai i dolori, il fatto che erano due giorni che mi nutrivo solo di acqua in bottiglia e granelli di zucchero, ci aggiunsi un sano litigio tramite vie tecnologiche dall’altra parte del mondo, salutai le mie due coinquiline che all’ultimo mi ficcavano nelle mani chiavi e spazzolini dimenticati e mi diressi nella notte cheta verso il primo riksha che mi avesse accompagnato a prendere l’ultima metro spedalando contento di essersi intascato 10 rupie per così poca strada. Scesi alla fermata della stazione di Old Delhi, che manteneva alto il nome, e mi ritrovai nella semioscurità ad evitare enormi sacchi di juta di posta e merci come solo nelle vaporiere di film Western si erano viste; indiani raccogliticci con nutrite famiglie al seguito che ronfavano beati mentre matrone scodellavano pasti in attesa chissà di quale rapido verso il Bengala o il Punjab. Riuscii a trovare la mia piattaforma in tempo per vedere arrivare il mio mezzo, e con gli ultimi barlumi di energia in corpo mi orientai in quella giungla di elenchi appesi, sigle dipinte sulle lamiere e venditori dolci e masala chai. Trovai il mio scompartimento e mi resi conto che, grazie a Dio, la mia panca-brandina era quella più in alto. Questo mi si rivelò salvifico, poichè durante il giorno potevo rimanere sdraiato inerte invece di dovere smontarla per trasformare lo scompartimento da sei letti in due sedili da sei posti. Sei posti che, notavo dalla mia posizione arroccata, diventavano stranamente almeno otto, nonostante io mi ostinassi a rimanere sopra. Era evidentemente che i miei bengalesi compagni di postazione soffrivano di eccessiva solitudine e non esitavano a colmare qualsiasi spazio vuoto riempendolo di altri compari, in pieno Horror Vacui (http://it.wikipedia.org/wiki/Horror_vacui). Ma tutto questo non mi scalfiva.

Pure mentre rimanevo ad aspettare che il Bramaputra Express partisse (e il maledetto ci mise almeno tre ore oltre il previsto, aggiungendo altri simpatici ritardi fermandosi inspiegabilmente nel cuore della notte dove il Signore perse le scarpe) ero placido e non troppo preoccupato, anche perchè non ne avevo le energie per esserlo. Essenzialmente giacqui nel caldo torrido indistintamente per due giorni e due notti. Inizialmente consumando della pasta scotta e bianca che mi ero portato e successivamente solo di acqua, chai e l’interno di due fette di pane “integrale”. Lasciai in pratica la mia postazione solo per raggiungere le temibili toilette. In realtà di tutto questo ho un ricordo abbastanza rilassato e tranquillo e ricordo che migliorai nell’immobilità quel tanto che avevo previsto e una volta che dopo due inesorabili giorni di viaggio arrivai alla mia destinazione avevo passato il picco della mia malattia, rendendo possibile quel viaggio che caparbiamente avevo desiderato e ottenuto. In tutto questo mie compagne erano unicamente la lettura di un volume introduttivo al buddhismo (insomma, andavo nel “Piccolo Tibet”, che villanzone sarei stato arrivando, oltre senz’arte né parte, nemmeno incuriosito) e la piccola console Nintendo DS perfidamente sgraffignata a mia sorella prima del viaggio. E ovviamente la piatta, monotona e meravigliosa vista delle pianure gangetiche e i cori di una scolaresca di ragazzine che mi ricordavano certi canti da Azione Cattolica o Scout, o almeno dei “banz” da GrEst (http://it.wikipedia.org/wiki/GREST#Campi_estivi_e_Grest). Non si sa bene come, a un certo punto seppi che il mio viaggio era finito (e non capii mai come lo capii visto che ero l’unico nell’intera classe a parlare una lingua extraindiana, visto che la English Speaking Middle Class si teneva ben lontana da questi suburbia ferroviari) e di nuovo forte nelle mie traballanti gambe scesi e pagai circa un euro a un incredibilmente conveniente riksha-wala che accettò di scarrozzarmi per ben dieci km col mio enorme zainone fino al centro di Siliguri, dove appresi che gli estenuanti ritardi del treno avevano avuto anche la piacevole sorpresa di farmi arrivare tardi per l’ultima Jeep Condivisa per le montagne. Cercai quindi un lurido buco economico il meno lurido possibile (bugia, lo cercai solo il più economico possibile) e l’indomani presto ero pronto per un esperienza fantastica.

Immaginate di stare in un paese dove l’unico orizzonte è la nebbia asfissiante del caldo umido, dove non vedete nessuna montagna, nessun mare e l’unico fiume è solo un veicolo di trasporto dell’immondizia. Un paese dove notte e giorno sudate, invariabilmente. Immaginate a un certo punto un biglietto di uscita, ma non per una noiosa città europea, ma un biglietto di uscita che vi faccia arrampicare su delle sobbalzanti jeep su delle montagne che sgorgano all’improvviso alla fine della pianura senza fine, immediatamente enormi, caparbie, infinite, e man man salite sentite il caldo asfissiante scomparire, l’aria diventare tersa, fresca, che l’erba bruciata, l’immondizia, le mucche e le scimmie finiscano di botto, lasciandovi in mezzo a una natura rigogliosa, piena di orchidee, caprette, e dolci ruscelletti che di tanto in tanto vi attraversano la strada. Questo è quello che ho provato.

Ho detto ben poco fin qui del tè, ma tutto questo viaggio era verso di esso che mi portava. Ero entrato nella regione del Darjeeling, ma non fu verso quella splendida e antiquata città che mi diressi. Andai dalla sua “sorella povera”, Kurseong. Una collina come Darjeeling, ma collina pur sempre da 2000 e passa metri. E anzichè essere diventata una città occidentalizzata in chiave indiana come Darjeeling era rimasto un villaggetto minuscolo con una vista mozzafiato sul Kanchendzonga. Una volta a Kurseong mi feci dare uno strappo (a pagamento si intende, con quelle microtruffe di cui si contentano gli indiani) per Makaibari, la stella polare su cui avevo basato i miei tre giorni di viaggio. Makaibari è una “tea estate” peculiarissima. Aspettandomi bidonville e degrado arrivando presso le coglitrici di foglie, mi trovai invece in mezzo una serie di piccoli villaggetti situati accanto ai ripidissimi campi che crescevano sui fianchi della montagna. Ogni famiglia aveva una deliziosa casetta con un bel giardino, una nutrita percentuale dei quali era festosamente addobbata delle colorate bandiere di preghiera buddhiste. Fui ricevuto dal mio contatto, una guida montanara nepalese che parlava un ottimo inglese e la cui moglie era una delle Tea Plucker del posto. Entrando nel suo giardino notai un alveare, un cane, una capra, delle galline e dentro casa un computer stava di fianco a un ridente Buddha. Il benessere dei lavoratori del Makaibari è dovuto in gran parte alla visione filantropica del proprietario della estate che racconta di avere ricevuto dalle piante la supplica a “salvarle”. E evidentemente aveva deciso di farlo insieme agli operai, che incoraggiò a riunirsi in comunità, dandogli uno stipendio onesto e mettendoli nelle condizioni di avere delle condizioni di vita cui non ero abituato vedendo la povertà per le strade di Delhi. E’ sempre presente sul luogo un piccolo numero di volontari da ogni parte del mondo che danno una mano a migliorare le condizioni di vita, fanno da personale medico o si danno all’educazione. Insomma un piccolo paradiso di cui mi fregio essere stato il primo italiano ad averci messo piede. Dopo un casalingo pasto, presi la mia nuova compatta e mi avventurai per le temibili scarpate di Kurseong, in mezzo a sterminati campi di Camelia Sinensis.

La mia compagnia era quella della mia albergatrice e le sue colleghe, quasi tutte nepalesi venute in India a cercare migliori condizioni di vita e che sghignazzavano sotto i baffi della mia goffagine nel riuscire ad arrampicarmi per quei piani inclinati dove non esisteva nessun sentiero e nessuna balconata. Al minimo inciampo mi sarei ritrovato dolorante parecchi metri sotto il mio punto di partenza, ma la vista ripagava abbondantemente di tutto. La Camelia Sinensis non ha un aspetto particolarmente nobile di primo acchito, le foglie sono coriacee, lanceolate, un po’ scialbe come quelle di un siepe separatrice in un parco pubblico, i fiori bianchi sono gradevoli ma niente di speciale. Quello che colpisce in questa “durezza” della pianta è invece la morbidezza delle Golden Tip, le Cime del rametto, le tre foglie apicali che vengono scelte per il tè. Ovviamente la più morbida e delicata è quella estrema che è l’unica che viene usata per le qualità più pregiate. Mentre mi inerpicavo dietro quelle maratonete delle altezze, godendomi uno dei panorami più esclusivi al mondo, non potei non ammirare la loro agilità e giovialità nel lavoro. Mi sono tolto lo sfizio di cogliere anche io un ciuffetto di Golden Tip e mi piace pensare che qualcuno si sia bevuto una buona tazza di tè in cui abbia contribuito alla sua realizzazione. Non esistono pesticidi o concimi chimici al Makaibari Tea Estate, altissimi fiori gialli sovrastavano le piante di Camelia, producendo e immettendo nel terreno nutrienti che di norma vengono somministrati con prodotti industriali. Giunto l’ora del tramonto, queste himalayane mondine si sono messe in fila indiana con le loro ceste di vimini sulle spalle traboccanti di foglie e si sono immesse nei tornanti del sentiero che portava al villaggetto e alla fabbrica. La sera calava rapidamente e sulle montagne buio vuole dire fine del ciclo della giornata. Ristoranti, alberghi e negozi, niente e nessuno è più funzionale.

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